Perché e quando iniziò a fotografare? Cosa la spinse a utilizzare più di 150.000 negativi, conservandoli gelosamente senza mostrarli, senza rivelarsi come fotografa, senza prendere contatti con chi avrebbe potuto allestirle una mostra? Vivian Maier era una tata: dagli anni Cinquanta del secolo scorso accudì i bambini della upper class di New York e Chicago. Era sostanzialmente sola, a quanto testimonia chi l’ha conosciuta, non scriveva, però collezionava oggetti. Ma soprattutto fotografava.
Tutti i materiali raccolti nel corso della sua vita finirono in un magazzino fino al 2007 quando, dal momento che nessuno più pagava l’affitto, l’intero stock venne messo all’asta e acquistato da un tal John Maloof il quale da allora, inaspettatamente, si trovò in mano un tesoro. Centinaia di migliaia di pellicole non sviluppate (quindi rimaste “segrete” alla stessa fotografa, che sembra non potesse permettersi il costo dello sviluppo di tutte le riprese), negativi, fotografie, film in super 8, registrazioni e appunti che ora stanno pian piano svelando il lavoro di una baby sitter che girava per le strade delle metropoli statunitensi con al collo una Rolleiflex prima, una Leica poi. Ritraeva le persone che incontrava casualmente, le situazioni strane e insolite e quelle quotidiane, indagava il mondo degli emarginati con uno sguardo tenero e sensibile e immortalava l’alta borghesia con un lampo di sarcasmo che trapela netto e tagliente dai bianchi e neri delle fotografie. “Ma i volti. Oh! Questi volti. I bambini sono facili da amare, come quei ritratti che solleticano la nostra nostalgia per anni lontani che ci ostiniamo a ritenere più semplici dei nostri. Gli autoritratti non fanno altro che rendere Maier ancor più misteriosa; ci mostrano tutto, senza rivelarci alcunché” (Laura Lippman, dal catalogo della mostra). Sì, perché Vivian Maier ha lasciato innumerevoli di selfie ante litteram dai quali si intravede la figura di una donna di mezza età, spettinata e dall’aria severa (“sguardo da soldato triste”, scrive Alessandro Baricco in un articolo che ha diffuso la sua fama in Italia), probabilmente ossessionata da una spinta verso la documentazione e l’accumulo, di oggetti e di immagini.
È stata definita un’anima in fuga, alla costante ricerca di se stessa, ma gli unici dati certi che possediamo sono quelli oggettivi che si possono ricavare dalle sue straordinarie fotografie: l’abilità di saper cogliere gli attimi significativi di una scena di strada, la capacità di penetrazione psicologica dei soggetti presi letteralmente di mira, il rigore della composizione e della pratica quotidiana, costante, che le occupava probabilmente tutto il tempo libero dal lavoro.
La fotografa ha lasciato il suo – e il nostro – mondo nel 2009, poco prima che il nuovo proprietario delle sue “cose” riuscisse a contattarla, senza aver mai cercato qualche forma di riconoscimento per i suoi scatti; ma la sua storia oscura e affascinante, ancora da indagare per molti aspetti, ha conquistato galleristi e scrittori, critici e registi (Maloof e Siskel le hanno dedicato un film, Finding Vivian Maier), mentre le mostre si moltiplicano di paese in paese, rendendo visibili a tutti gli scatti mai visti dalla loro stessa autrice.
Copertina: Vivian Maier, New York, NY, s.d. © Vivian Maier Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York