In principio fu il manoscritto. In forma di rotulo oppure di codex – quest’ultima immutata fino a oggi per quegli oggetti chiamati libri – per parecchi secoli realizzare un volume completamente trascritto a mano su un supporto come la pergamena, non l’unico ma senza dubbio il più diffuso, ebbe costi da capogiro. La disperazione di Guglielmo davanti al rogo della biblioteca ne Il nome della rosa è di natura intellettuale, ma se il francescano con gli occhiali avesse considerato il danno economico inferto dalle fiamme, il suo dramma non sarebbe stato meno intenso.
Il possesso di un libro fu, ben oltre il Medioevo, un privilegio per pochi: un manoscritto poteva diventare oggetto di dono e di ostentazione del potere da parte di papi o imperatori e non di rado – per aumentarne pregio e valore simbolico – essere corredato da sontuose illustrazioni, preziose legature o ancora nobilitato dalla tintura del supporto con la porpora, il colore imperiale per eccellenza evocativo del porfido, su cui vergare il testo in oro o in argento. Natura non facit saltus e anche nella storia del libro, dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili, questo principio non venne disatteso: nel XVI secolo si contano libri, usciti non più dagli scriptoria, ma dalle officine tipografiche, con miniature affini a quelle dei manoscritti oppure impressi su cartapecora.
Fu all’interno di questo processo che alcuni tipografi scelsero di licenziare copie di lusso o esemplari di dedica destinati a personaggi illustri su un supporto speciale, preferendo però alla pergamena – non solo (ma anche) per motivi economici – la carta turchina. Correva l’anno 1514 quando Aldo Manuzio, lo Steve Jobs del Rinascimento come lo ha definito la mostra a lui dedicata da poco conclusasi alla Galleria dell’Accademia di Venezia, per primo stampò su carta azzurra. L’editore che però seppe, nel Cinquecento, trasformare tale pratica in consuetudine, facendone uno dei segni tangibili dell’attenzione – tanto intelligente quanto interessata – per i suoi libri e i suoi mecenati fu Gabriele Giolito de’ Ferrari: la applicò sia nel campo d’attività più tipico della sua officina – le princeps di autori contemporanei – sia nelle edizioni dei maestri già riconosciuti della nostra letteratura.
Le giolitine con la Commedia dantesca costituiscono l’esempio perfetto del secondo caso: su carta colorata d’azzurro si conoscono copie del poema sia datate 1536 sia 1555. La differenza più interessante tra le due? La comparsa per la prima volta nel titolo dell’edizione più tarda, di quell’aggettivo “Divina” che – introdotto da Lodovico Dolce – sarebbe poi passato nelle edizioni successive diventando la norma.
Il primo caso è invece ben rappresentato dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto: benché della prima edizione uscita dai torchi di Giolito (1542) si abbia notizia di una copia su pergamena, ma non in carta blu, dell’impressione appena successiva (1543) ne è noto grazie agli studiosi un esemplare turchino poi perduto: il libro si distingueva non solo per la tonalità cerulea del supporto, ma anche per le controguardie in pergamena color porpora e per un raffinato sistema iconografico di illustrazioni e capilettera colorati a mano. Natura non facit saltus.
Copertina: Dante Alighieri, La Divina Comedia di Dante di nuovo alla sua vera lettione ridotta con lo aiuto di molti antichissimi esemplari, Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari e fratelli, 1555, cc. **6v e I1r.