di Rossella Romito
Chi ha detto che l’arte non può essere protagonista di un successo industriale? Ai più scettici potremmo raccontare una storia, conosciuta ai più, che ebbe inizio nel 1932 a Ivrea, vicino Torino. Dopo il padre Camillo, Adriano Olivetti fu alla guida dell’industria di famiglia – la Olivetti appunto – e fino al 1960 condusse un notevole processo di modernizzazione e di organizzazione del lavoro, ponendo l’accento sulla sperimentazione e sull’innovazione e prestando allo stesso tempo grande attenzione alla comunicazione e all’estetica dei prodotti.
L’imprenditore chiamò a lavorare giovani collaboratori per la grafica e per il design industriale come Marcello Nizzoli, Xanti Schawinsky, Giovanni Pintori e, più tardi, Ettore Sottsass e Mario Bellini. Questi portarono come bagaglio le esperienze più originali e prolifiche di quegli anni: lo svizzero Schawinsky – ad esempio – aveva partecipato all’esperienza del Bauhaus a Dessau e nel 1933 entrò a far parte attivamente dello Studio Boggeri di Milano, dove collaborò a campagne pubblicitarie di grande risonanza per Motta e Cinzano. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, la Olivetti introdusse sul mercato alcuni prodotti destinati a diventare oggetti di culto, come la macchina per scrivere Lexikon 80 (1948) o la portatile Lettera 22 (1950): pezzi che da allora sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo quali frammenti della nostra storia e compagni di viaggio, grazie anche ai manifesti realizzati per una comunicazione efficace e sfruttata al massimo delle potenzialità.
L’etica del lavoro e l’ascolto dei bisogni dei dipendenti sono altri aspetti fondamentali dell’impronta che Adriano Olivetti volle dare a un progetto sociale messo in atto nella sua fabbrica per creare un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto. In questo ambito si collocano servizi quali asili, biblioteche, la “Mensa Olivetti” di Ignazio Gardella (1954) o la “Fascia dei servizi sociali” progettata da Luigi Figini e Gino Pollini (1954-1957). Sempre in quegli anni, e precisamente nel 1952, la filosofa e scrittrice francese Simone Weil pubblicò La condizione operaia con Edizioni di Comunità, casa editrice fondata da Adriano Olivetti nel 1946, in un momento di grande turbamento morale e di grandi speranze per la società, al fine di contribuire alla ripresa culturale dell’Italia del Dopoguerra.
Una sorta di mecenate rinascimentale un po’ in ritardo sulla storia? O forse troppo in anticipo? Di sicuro Adriano Olivetti è stato un imprenditore illuminato e poliedrico e ha dato vita a una leggenda, la stessa che oggi è protagonista di una cappella della chiesa dell’Abbazia di Valserena a Parma, che ospita il Centro Studi Archivio della Comunicazione (CSAC). Qui la produzione per l’industria è esposta, attraverso materiali provenienti dagli archivi di numerosi artisti e designer, come caso esemplare di quell’interdisciplinarietà fra le diverse discipline che ha permesso il successo sia culturale sia industriale di Olivetti. E vicino allo spazio dedicato Olivetti, ci sono le testimonianze di un’altra figura rivoluzionaria, in questo caso per la moda italiana, lo stilista Walter Albini, uno dei padri del prêt à porter, capace di fare da ponte tra l’atelier e la fabbrica.
Dipinti, sculture, oggetti di design, fotografie, manifesti e bozzetti pubblicitari, film, video-tape e disegni di moda: il patrimonio del CSAC conta dodici milioni di opere, seicento delle quali costituiscono il percorso espositivo aperto al pubblico e articolato per temi – quasi delle “stanze dell’arte” in continuo dialogo – all’interno dell’antica chiesa. Un vestito di pailettes, una calcolatrice, un quadro e una scultura si affiancano senza gerarchie di genere, ma come prodotti artistici di pari livello: un’altra lezione per gli scettici, dopo la storia di un uomo lungimirante.
Per saperne di più: www.csacparma.it
Copertina: Marcello Nizzoli, Manifesto per Lexikon Olivetti, particolare, s.d. (1949) Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università degli Studi di Parma.