Una fotografia non è “bella”, disse Ugo Mulas a un giovane e inesperto Gianni Berengo Gardin, una fotografia è “buona” e lo è quando racconta e dice delle cose, comunica qualcosa. Mulas non poteva ancora sapere che colui che lo ascoltava, attento e desideroso di apprendere, sarebbe diventato, a sua volta, un grande maestro nella comunicazione visiva. La fotografia di reportage si rivela infatti essere il tarlo di Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 10 ottobre 1930) che, pur spaziando nella ripresa d’architettura e di paesaggio, concentra dichiaratamente il suo interesse sull’uomo, le sue abitudini e il cambiamento di queste al variare della società.
A partire dal 1954, data in cui inizia a interessarsi di fotografia, egli raccoglie un archivio di 1 milione e 500mila scatti attualmente custoditi dalla Fondazione Forma per la Fotografia di Milano. Alcuni di questi sono diventati iconici e, proprio da essi, si può tracciare un percorso visivo a partire dalla seconda metà del secolo scorso fino ai giorni nostri.
La Mini Minor in riva al mare in Inghilterra segna il punto di partenza di questo itinerario immaginario che si snoda attraverso problematiche differenti come il mondo del lavoro, di cui il fotografo ligure documenta i cambiamenti, o la condizione della donna, indagata nelle sue aspettative, nelle rinunce e nell’evoluzione del suo ruolo sociale. Tappe significative, soprattutto per impatto emotivo, sono quelle con gli zingari in tre campi nomadi a Trento, Firenze e Palermo, o il lavoro di documentazione della realtà manicomiale italiana, condotto nel 1968 assieme a Carla Cerati. Anche la celebre raccolta di baci rubati per strada ha le sue ragioni documentaristiche, essendo scaturita dall’osservazione delle abitudini parigine tanto diverse da quelle della terra natia in cui le effusioni in pubblico erano ancora tabù. Il tragitto prosegue ancora approdando al 2013 con la spropositata imponenza delle “Grandi Navi” veneziane e le problematiche ambientali legate alla città lagunare.
L’attitudine ad abbracciare tematiche differenti è più viva che mai e coinvolge anche i giorni nostri. È firmato da lui, infatti, il Calendario 2017 della Polizia di Stato, una prospettiva diversa di raccontare una categoria da sempre banalizzata e stereotipata.
Questo breve viaggio fra le immagini di Gianni Berengo Gardin evidenzia il forte credo documentaristico del fotografo. La posa non esiste, così come il digitale. Solo spontaneità e analogico, resi ancora più reali e comunicativi da un bianco e nero intenso. “Il colore distrae, non è adatto alla documentazione”, dichiara Gianni Berengo Gardin, “il bianco e nero ti costringe a guardare meglio”. Ti porta a trovare il messaggio e a scorgerne il contenuto, valori posti da sempre come obiettivo primario del fotografo. Nonostante la forma sia importante, infatti, fra essa e il contenuto la predilezione è sempre per quest’ultimo. Gianni Berengo Gardin non si definisce un artista, lui è nato per testimoniare i tempi, è un fotografo che fa bene il suo lavoro. La forma la lascia giudicare agli altri: ben venga che considerino artistiche le sue foto, per lui l’importante è che siano “buone”.
Copertina: Gianni Berengo Gardin, Venezia, 1959 © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia