di Petra Cason Olivares
Sentendo nominare “Bugatti”, a chiunque ancor oggi verrebbe spontaneo il collegamento con la nota casa automobilistica alsaziana, probabilmente ricordando vagamente le forme eleganti di una carrozzeria “fin de siecle”. Tuttavia sarebbero in pochi ad associare il nome Bugatti alla figura di Carlo, padre dell’imprenditore automobilistico Ettore, raffinato ebanista e sorprendente innovatore del design che, a cavallo tra Otto e Novecento, diventò uno dei più importanti esponenti del Liberty italiano.
Carlo Bugatti, milanese d’origine e di formazione, coniugò le sue innate doti tecniche nella lavorazione del legno alla conoscenza di materiali tutt’altro che consueti come il rame, la pergamena, l’osso, l’avorio… Questi elementi divennero parte delle sue innovative creazioni, che sempre più velocemente si allontanavano dall’arredamento d’artigianato per diventare opere d’arte concluse, portandolo negli anni a elaborare un suo personale linguaggio che, pur aderendo all’Art Nouveau, ne superava i precetti. A differenza del movimento anglosassone dell’Arts & Crafts, l’Art Nouveau non precludeva la possibilità di coniugare i vantaggi di una produzione seriale, raggiunta dalla lavorazione industriale dei materiali, alla raffinatezza tecnica e alla cura dei dettagli propria della produzione artigianale, aprendo così la via al moderno concetto di design.
Le esposizioni internazionali furono il trampolino di lancio per una carriera internazionale, e valsero a Bugatti la vincita del Gran diploma d’onore, riconoscendogli il ruolo di “primo in Italia a creare, e non solo a sognare, un moderno stile nell’arredamento”.
Culmine della sua ascesa fu la Prima Esposizione Internazionale d’arte decorativa moderna di Torino, nel 1902, in occasione della quale Bugatti presentò quattro ambienti, ciascuno caratterizzato da una precisa estetica, ideati traendo ispirazione da un esotismo che racchiudeva in sé le geometrie intricate del mondo islamico, il delicato decorativismo giapponese, le forme piene e aggettanti del gotico, e le tinte calde del Nord Africa. Tra questi si trovava la “Camera a chiocciola”, stanza interamente composta da manufatti realizzati ispirandosi alle forme sinusoidali dell’animale, riproposte in scala umana, e di cui faceva parte la “cobra chair”.
Il prototipo della “cobra chair”, oggetto-scultura che racchiude in sé tutte le caratteristiche della fervida produzione di primo Novecento di Bugatti, era composto da una struttura in legno priva delle classiche gambe, che fondeva base, seduta e schienale in un blocco armonico, quasi senza soluzione di continuità. La struttura lignea era ricoperta interamente da uno strato di pergamena dipinta che mascherava le giunture, anticipando idealmente i modelli di sedie in plastica stampata realizzate solo pochi decenni dopo.
La pelle levigata era completamente decorata da elementi propri dell’estetica liberty: libellule stilizzate, steli e corolle di fiori sbocciati sulle quali si posavano minuscoli insetti, andavano a comporre sulla superficie dipinta un pattern che seguiva l’andamento dei volumi, sottolineando il gioco di pieni e vuoti della sedia.
Nonostante i possibili paragoni con altri esponenti del design internazionale (come lo spagnolo Gaudì), Bugatti era conscio già al tempo di aver ideato qualcosa di ineguagliabile. Passò alla storia, infatti, la risposta che diede alla Regina d’Italia Elena la quale, lodando l’esposizione del 1902, parlò del suo come di “stile moresco”. Bugatti replicò sfacciatamente: “Vi state sbagliando, Maestà, questo stile è mio!”.
Copertina: Carlo Bugatti, Cobra Chair, 1902