Dopo anni di sperimentazioni fotografiche, assistito dai due fratelli minori Arturo e Carlo Ludovico, nel 1911 Anton Giulio Bragaglia (1890-1960) pubblica il saggio Fotodinamismo futurista in cui inserisce i suoi risultati nel neonato movimento fondato un anno prima dal poeta e letterato Filippo Tommaso Marinetti. L’effetto è quello di un fulmine a ciel sereno, con l’unica differenza che quel cielo non è poi così terso visti gli stravolgimenti operati dal neonato movimento artistico e culturale. Il Manifesto dei pittori futuristi ha minato infatti le certezze tradizionali riguardanti l’arte, soprattutto nelle sue rappresentazioni veriste, per abbracciare il movimento e la velocità proiettati verso il futuro e il progresso.
Ciò non accade per caso: l’inizio del secolo è caratterizzato da profonde trasformazioni sociali e politiche, ma soprattutto dalle nuove scoperte tecnologiche che arrivano a rivoluzionare la percezione delle distanze e del tempo. Pensiamo al telegrafo senza fili e la conseguente accelerazione delle comunicazioni, le catene di montaggio che abbattono i tempi di produzione, gli aeroplani che riducono le distanze fra i popoli, la radio che consente una più veloce diffusione dell’informazione. Tutto ciò confluisce in una nuova sensazione di velocità, in un’idea ottimista del progresso che proietta l’uomo nella “radiosa magnificenza del futuro” (Manifesto dei pittori futuristi, 1910).
Tuttavia, in questo contesto non trova spazio la fotografia che viene osteggiata dai pittori futuristi in quanto mera rappresentazione della realtà priva di artisticità. Colui che, più di tutti, si scaglia contro i fratelli Bragaglia è Umberto Boccioni (1882-1916) che reputa il loro lavoro un banale prolungamento della vecchia pittura realista. Egli arriva a raccomandare ai propri amici e colleghi di astenersi da “qualsiasi contatto con la fotodinamica del Bragaglia” e a far uscire un avviso sulla rivista futurista “Lacerba” dichiarando che le sperimentazioni del fotodinamismo non hanno nulla a che fare con l’arte.
In realtà, Anton Giulio Bragaglia disprezza la ricostruzione meccanica della realtà ed esalta la capacità del mezzo di catturare la complessità e la traiettoria del movimento. Le sue fotografie “movimentiste”, basate principalmente sulla lunga esposizione, non sono un’imitazione del reale bensì un’espressione creativa che riproduce qualcosa non percepibile dall’occhio umano e che cattura l’essenza del gesto.
La reazione di Boccioni, in effetti, sorprende se si considera che egli stesso non solo realizza il celebre scatto Io noi Boccioni (1907) facendo uso artistico della fotografia, ma si fa anche fotografare dagli stessi Bragaglia in una fotodinamica dal titolo Ritratto polifisiognomico di U. Boccioni (1913). Allora per quale motivo egli se la prende tanto col fotodinamismo? Secondo la critica di settore, la polemica di Boccioni risponde alle accuse della cultura classica del tempo che contrappone negativamente la pittura futurista alla cinematografia e alla fotografia. La bagarre viene attutita da Marinetti il quale, convinto che il fotodinamismo esprima il futuro, oltre a scrivere la presentazione di una mostra di Bragaglia e a invitarlo alle serate futuriste, arriva anche a finanziare il suo lavoro e, nel 1930, firma con Tato il Manifesto della fotografia in cui teorizza l’ipotesi di un’autonoma fotografia futurista.
Copertina: Anton Giulio e Arturo Bragaglia, L’uomo che si leva, 1911, stampa alla gelatina d’argento