Nel clima della Milano anni Trenta, con il sottotitolo Rivista di estetica e di tecnica grafica, nacque “Campo Grafico”. Per volontà di due artisti del cartellonismo pubblicitario – Carlo Dradi e Attilio Rossi – e di un gruppo di tipografi intenzionati a immettere nella tradizione grafica italiana una modernità già recepita in arte e architettura, prese avvio un progetto di sperimentalismo grafico destinato a segnare indelebilmente il settore.
Nei 66 numeri realizzati dal 1933 al 1939, autoprodotti in piena autonomia e tutti differenti nell’impaginato e nelle copertine, “Campo Grafico” propose radicali ribaltamenti delle priorità tipografiche, puntando sulla sensibilizzazione verso gli esiti astratto-razionalisti dell’arte europea e la bellezza asimmetrica di una composizione inusuale, con un titolo continuo corrente sulla doppia facciata o l’innovativo uso dello spazio bianco, con il titolo ad altezza quarto di pagina. Concetti all’epoca non scontati e che animavano dibattiti e rubriche, come la celebre “Rassegna del brutto”: autoconsapevolezza etica del progettista, necessità del contatto tra prodotto e pubblico, importanza della leggibilità nella comunicazione istituzionale (biglietti del trasporto urbano, modulistica burocratica).
Non stupisce che il numero 3-5 Anno VIII, che segnò la chiusura dell’esperienza di “Campo Grafico”, fosse una monografia dedicata a quella che, tra le avanguardie, fu la più rivoluzionaria sotto il profilo della composizione tipografica, il Futurismo. Il movimento marinettiano aveva infatti stravolto, se non annullato, ogni possibile regola di impostazione tipografica a partire dal paroliberismo, vero incubo per qualunque erede – a inizio Novecento – dell’arte di Gutenberg.
Responsabile del fascicolo triplo fu il talentuoso Enrico Bona, l’esteta più raffinato – e più autarchico – tra i collaboratori di “Campo Grafico”. Il trentino curò in maniera capillare, supportato dagli ingegni di Cesare Andreoni e Guido Modiano, contenuto e forma di ogni singolo foglio, sia che si trattasse di pagine destinate a ospitare gli interventi dei mostri sacri del Futurismo – da Marinetti a Russolo – sia che fossero occupate da reclame: proprio le pubblicità Bona realizzò appositamente richiamando estetica e stile futuristi, restando fedele a una delle innovazioni di “Campo Grafico”, la prima rivista a proporre agli inserzionisti che producevano inchiostri di promuoverli riproducendo tavole a colori con opere di grandi artisti.
Citazioni e richiami all’arte contemporanea, dinamismo compositivo nel dialogo testo-immagine, innesti cromatici anche nelle pagine di solo testo, inserimenti fotografici e fotomontaggi, uso tattile di carte diverse per colore e grammatura o persino di supporti di stampa alternativi alla carta. Sono queste le principali linee guida dell’impresa di “Campo Grafico” che trovano nel numero sul Futurismo – voluto nel trentennale del primo Manifesto – un’applicazione magistrale, con vette di modernità inarrivate, come le tavole parlanti in cellophane, insieme autonome e dialoganti rispetto a quelle cui andavano a sovrapporsi.
Dopo questo capolavoro Bona tornerà a confrontarsi con Marinetti e compagni nel 1941, siglando una delle ultime pagine davvero sperimentali della tipografia futurista, L’Aeropoema futurista dei legionari di Spagna di Bruno Aschieri: testo su carta gialla, numeri di pagina declinati a motivo ornamentale, grafica di copertina parolibera, invenzione tutta futurista, ma evocativa delle lezioni del Bauhaus e De Stijl. Perché Bona era, e sarebbe rimasto, un “Campista”.
Copertina di “Campo grafico aeroporto della rivoluzione futurista delle parole in libertà poesia pubblicitaria”. Anno VII. N. 3-5. Milano, 1939