SUITE IN QUATTRO PARTI
Terza parte: Consumismo
Chi è stato bambino negli anni Sessanta, oltre ad aver conosciuto i prati selvatici di cui si diceva nella parte precedente, ha sperimentato anche il pericolo. Intendo il vero pericolo letale, quello che allora alla televisione veniva definito “pericolo di morte” e non “pericolo di vita” come si sente dire assurdamente adesso, per un tentativo del tutto risibile di esorcizzare l’immanente presenza della “commare secca”, per dirla alla Bertolucci.
Nei favolosi sixties ai bambini si propinavano dolcetti e bibite, colorati con additivi artificiali degni del Piccolo Chimico, un gioco molto in voga in quel periodo e all’epoca più pericoloso rispetto all’edulcorata versione attuale, col quale un gruppo di bimbetti avrebbe potuto portare agevolmente a compimento un piccolo eccidio. Qualcuno ricorda le famigerate spume, da dieci o da venti lire, coloratissime e gasatissime con le quali cercavamo inconsapevolmente di emulare Socrate alle prese con la cicuta? E che dire di certi nostri giocattoli, costruiti con una latta affilata come le lame di Toledo o come la katana di Uma Thurman in Kill Bill.
Per non parlare di fionde, cerbottane, armi ad aria compressa, coltelli a serramanico, freccette acuminate, archi e altri oggetti usi a offendere, che venivano liberamente venduti a noi bambini. A volte mi meraviglio del fatto che gli incidenti siano stati relativamente pochi. Credo non più numerosi di quelli che accadono ora agli attuali pargoli iperprotetti e con giocattoli passati al vaglio di un numero imprecisato di severe commissioni internazionali.
Allora si era in pieno consumismo selvaggio e con poche regole. Volevi comprare il motore di un jet per montarlo sulla tua 500? Nessun problema, la legge lo permetteva. Nonostante le bibite e i balocchi, sopravvivemmo quasi tutti, insomma. E molti di noi andarono più tardi a ingrossare le fila dei fan dei Genesis e della musica pop in generale (dato che eravamo proprio “quella” generazione). Intanto le autorità si erano fatte più accorte e iniziarono le contromisure per la difesa del cittadino, ad esempio bandendo certe sostanze palesemente tossiche da cibi e bevande. Ce le vendevano lo stesso, però almeno avevamo la soddisfazione di sapere che era illegale. I tizi che avevano montato i reattori dei jet nelle 500, ormai già ai tempi dei Genesis di Peter Gabriel potevano rischiare una multa, perciò le rettifiche meccaniche troppo audaci divennero semiclandestine.
Noi, nei primi anni settanta, abbandonate comunque per età le spume e le armi improprie ma non troppo, e passati agli album di rock più o meno progressivo, adottammo un abbigliamento ribellistico, aumentando di botto la fatturazione dei confezionatori di eskimo (grosso modo il vecchio parka dei mod) e di lunghe sciarpe di lana. In compenso iniziò il lento declino dei barbieri.
Il fatto è che per non dimostrarci dei pecoroni consumatori borghesi (così giudicavamo snobisticamente le altre persone), ci eravamo fatti cucire addosso una divisa. Cioè quella del giovane contestatore arrabbiato e/o annoiato (a seconda dei casi).
Lo stesso fecero più tardi i punk e poi i dark e ora gli emo. Dimostrando tutti scarsa originalità e bisogno disperato di appartenere a un gruppo, un clan, per sentire di esistere.
Anche noi quindi diventammo quasi subito simboli diversificati di quel consumismo che aborrivamo.