SUITE IN QUATTRO PARTI
Preludio – Città – Consumismo – Ecologia
Seconda parte: Città
Chi negli anni ’60 (cioè un po’ prima dei tempi dei Genesis di Gabriel) era bambino e abitava nella periferia di una qualunque media città del Nord, ha ancora adesso ben vivo il ricordo del tipico odore d’erba che emanavano i prati di quelle zone. Questa è proprio una caratteristica tipica della mia generazione: il ricordo dell’erba dei terreni incolti. Perché quei terreni non venivano più coltivati? Perché erano edificabili. Nel senso che a breve in quelle aree vi si sarebbe edificato. E infatti quei prati selvatici, in cui correvano le lucertole, ebbero una vita estremamente effimera. In pochi mesi, come per un cupo e fatale sortilegio, quei campi brulli per partite di calcio accidentate e per corse in slitta invernali erano sostituiti da palazzoni pieni di gente. La velocità con cui spuntavano quegli enormi cubi e parallelepipedi di cemento brulicanti di vita umana era davvero prodigiosa, ma in quel periodo tutto ciò divenne in breve tempo, a causa della frequenza con cui si verificava l’evento, un fenomeno normale al quale ci si abituò. Dopo un po’ nessuno vi badò più di tanto. Dopotutto si era in pieno boom economico, no? Perché allarmarsi? Bisognava pur dare un alloggio agli immigrati dal Sud e a tutti coloro che avevano abbandonato le campagne poco produttive, cioè quei terreni che non rendevano in proporzione al lavoro che richiedevano.
Qualche voce allarmata cominciò però a levarsi, come quella di Pasolini che denunciava il pericolo di una vera e propria mutazione antropologica come conseguenza dell’urbanizzazione. E a livelli più modesti, visto che in genere qui si parla di rock e quindi di musica “leggera” e altre categorie creative relegate nella fascia della “bassa” cultura, anche il Celentano del Ragazzo della via Gluck si lamentò del fatto che “non lasciano l’erba”, a sua volta prontamente rimbeccato dal sempre intelligente e spiritoso Gaber, il quale con la sua Risposta al ragazzo della via Gluck spiegava che molta gente aveva comunque bisogno di una casa.
Ma questa è preistoria. In realtà fu proprio ai tempi dei Genesis (di Peter Gabriel, sia chiaro), che il problema dell’urbanizzazione parossistica divenne argomento di discussione pubblica e toccò le corde di molti artisti. I quali però, va detto subito, in realtà non inquadrarono bene il problema e si persero in fumose e anacronistiche nostalgie, come nel caso di parecchi musicisti prog italiani. Le Orme in Cemento armato, la Reale Accademia Di Musica in Lavoro in città e il Balletto Di Bronzo in Un posto (solo per fare qualche esempio), dimostrarono di possedere una concezione del dualismo città\campagna estremamente ingenua e priva di realismo. La città veniva vista come un luogo disumanizzante, nel quale l’uomo era ridotto ad essere una specie di macchina senza volontà né personalità proprie, più o meno come nel film Metropolis di Fritz Lang. Questo concetto raggiunse l’apice nell’opera rock di Tito Schipa Jr. Orfeo 9 con il brano La città fatta a inferno.
Inoltre molti musicisti progressive italiani accusarono la città in generale di essere la causa prima di fenomeni quali corruzione, amoralità, depravazione, perversione, vizio e disonestà, non riuscendo a capire che un conto era la New York descritta da Lou Reed e un altro erano le città di provincia italiane. Inoltre questa alzata di scudi moralizzatrice rivelava un back-ground cattolico, spesso inconsapevole, che echeggiava ancora molto le famose Messe Beat di qualche anno prima.
Tutti quei disvalori portati dal demonio e dal cemento, i nostri complessi rock li contrapponevano ai valori ormai defunti di una campagna arcaica e romantica che ormai non c’era più e che a quei tempi, non esistendo ancora agriturismi e altre amenità che al giorno d’oggi simulano “una vera vita nella natura”, aveva perso anche gran parte della propria bellezza paesaggistica sacrificandola alla razionalità produttiva. Infatti, più una campagna è razionale e produttiva e più è scialba esteticamente. Basta guardare la Pianura Padana per rendersene conto.
(fine prima parte)