David Lachapelle ha voltato pagina.
Abbandonati i panni del super artista, ricercato e voluto da tutte le star hollywoodiane – che ha puntalmente “iconizzato” nei suoi scatti o videoclip – abbandonata la vita iper-mondana, abbandonata Los Angeles, si è ritirato nella sua casa alle Hawaii, immersa nella foresta e nel silenzio.
Dalle Star (con la S maiuscola), allo stare con se stesso. Al volersi ritrovare, al volersi riconnettere con il vero senso della vita. Questo potrebbe essere confuso, a un primo sguardo, con la scelta di una vita ascetica, lontano da tutto; anche dalla sua stessa arte.
Ma non è così; dopo tutto stiamo parlando di uno dei più importanti fotografi del nostro tempo (anche se il termine è riduttivo, in questo caso). Il silenzio, la pace e tanto, tanto nuoto lo aiutano a pensare, a far fluire meglio le sue idee, i pensieri, a fargli trovare quel tanto agognato equilibrio dello spirito del quale aveva perso le tracce da un po’ di tempo.
Il suo ultimo lavoro parte proprio da qui. Una visione introspettiva della vanità e della bellezza… in chiave Lachapelle. Con titoli come Springtime, Late Summer o Deathless Winter, ha voluto ripercorrere le quattro stagioni alludendo, però, al ciclo della vita: dalla nascita alla morte.
Il titolo della serie, Earth Laughs in Flowers (più o meno “i fiori sono il sorriso della Terra”), è apertamente ispirato al poema Hamatreya di Ralph W. Emerson nel quale i fiori sono l’espressione delle risate che la Terra si fa alla faccia dell’arroganza dell’essere umano, che da sempre crede di poter dominare le forze della natura. Un’idea che riporta alla rappresentazione Barocca della vanità, alle nature morte barocche dove il concetto di fondo è legato alla hubris* e al trascendere dell’umana esistenza: fiori, frutti, vegetali, animali, insetti, maschere, candele, orologi o teschi, simboli della fugacità e dell’insensata natura della vanità. “Proprio come i fiori appassiti, anche tutti noi vedremo svanire la nostra bellezza”.
Lachapelle ha trasposto il concetto dalla pittura alla fotografia, con la sua personalissima iconografia. Così, osservando bene le immagini si vedono apparire tra i fiori mozziconi di sigaretta, giornali del giorno prima, vecchi cellulari, pezzi di plastica, bambole Barbie, maschere manga, protesi mediche, pezzi di bandiere americane bruciate, aeroplanini, palloncini, lattine, avanzi di cibo, pezzi di corpo e tanti altri frammenti di una società problematica e sola come la nostra; sempre più affogata dentro smart device e social network.
Un immaginario simbolico, bizzarro e spesso eccessivo; una stupenda celebrazione della vita, prima che finisca.
*Hubris è una parola di origine greca e riassume, detto in modo superficiale, il concetto di “onorevole arroganza, intorno alla quale l’onore degli uomini maschera l’egoismo delle loro gesta”