Quando si parla di qualcosa inerente i Beatles non si parla solo di storia della musica o del costume, ma di storia tout court. Questo è incontrovertibile: parafrasando John Lennon, si può affermare che i Beatles sono stati e sono tuttora, a quarantadue anni dallo scioglimento, più famosi (e certamente più amati) della regina Elisabetta II. Hanno influito più loro sul nostro modo di vivere, di quanto abbia fatto la loro graziosa sovrana.
Perciò un ricordo da parte nostra a George Harrison, in occasione dell’appena trascorso decennale della scomparsa, rappresenta un doveroso e tutt’altro che gravoso omaggio.
Harrison è morto per un tumore, dopo aver abitato sottovoce questo mondo per 58 anni. Sì, sottovoce e con passo spedito e deciso, come nella copertina di Abbey Road, ma lieve. Insofferente all’enorme popolarità che doveva continuamente affrontare con la sua timidezza e col famoso sorriso storto.
A differenza dell’iconoclasta John, George era convinto che per migliorare il mondo prima si dovesse migliorare se stessi. Secondo lui bisognava imparare ad amare il mondo, prima di pretendere che fossero i governi e i politicanti a sterzare sulla strada percorsa. Anche Paul parlava sempre di amore, ma era un amore senza “overlook”, che si fermava alla siepe del proprio giardino e che al massimo lambiva il vicino di casa. Quello di George invece era un’esplosione cosmica, un’accettazione che fiorì nell’interesse delle culture altrui (non a caso Ravi Shankar lo definì il vero padrino della world music) ed ebbe il suo acme col primo benefit rock della storia, quel favoloso The Concert For Bangladesh che fu il modello per tutte le varie manifestazioni tipo Live Aid che vennero dopo.
Soffermiamoci un attimo su questo episodio, sintomatico della personalità di Harrison. E’ sufficiente elencare i nomi dei partecipanti per capire il livello di stima di cui godeva l’ex Beatle, non solo artisticamente ma anche umanamente: Ravi Shankar, Eric Clapton e i Dominos, i Badfinger, Billy Preston, Leon Russell, l’ex compagno Ringo Starr, Jim Keltner, Jesse Ed Davis, Bob Dylan. Purtroppo il benefit rivelò anche il rovescio della medaglia dell’essenza del nostro idealista. Infatti Harrison non fu in grado di gestire efficacemente la parte finanziaria dell’avvenimento e gran parte del denaro non andò dove doveva andare.
Altro problema sul genere ci fu quando George venne citato per plagio a causa di My Sweet Lord, effettivamente molto somigliante alla precedente He’s So Fine delle Chiffons. Nonostante il tribunale gli avesse riconosciuto l’involontarietà del plagio, il suo stesso manager Allen Klein facendo il doppio gioco e fidando sulla ingenua buona fede del nostro, per poco non riuscì a spillargli un mucchio di dollari.
George era un artista puro e un sognatore mistico, con le mani sulla chitarra o sul sitar e la testa nel cielo. Non aveva tempo né voglia per certe meschinità finanziarie. Questo valse anche per le sue numerose produzioni cinematografiche. Non c’era festival di cinema indipendente inglese che non annoverasse la presenza di qualche pellicola prodotta dalla HandMade Films, la sua casa cinematografica. Nonostante alcuni successi dovuti principalmente all’estro dei Monty Python (dai Bonzo Dog Doo Dah Band ai Monty Python, il passo fu breve), a un certo punto però fu costretto a vendere per dissesti finanziari.
Anche le vendite dell’Harrison musicista solista ebbero alti e bassi. Diciamo subito che lui oltre a realizzare per primo tra i Beatles un disco autonomo, la colonna sonora Wonderwall Music, fu anche quello che pubblicò il lavoro più bello, quel All Things Must Pass addirittura triplo. Poi però vennero anche cose non brillantissime, così come accadde a tutti e tre gli altri ex compagni, ma il suo bisogno d’indipendenza dal “mondo materiale” lo fece diventare l’unico con un’etichetta propria, la Dark Horse. Sempre a proposito d’indipendenza dal “mondo materiale”, andò in India dal Maharishi nel 1967 e nel 1968, insieme ai compagni e a Mick Jagger, Marianne Faithfull, Donovan e Mia Farrow. Solo che per gli altri si trattò unicamente di una moda e così la vissero. Per lui no. Infatti continuò a dedicarsi per tutta la vita alla meditazione e alla ricerca interiore dell’amore universale, oltreché alla musica indiana.
I primi due dischi di Harrison furono quanto di meno si potesse fare per andare incontro ai gusti del grosso pubblico. Non per niente il secondo Electronic Sounds uscì per la Zapple, una specie di dipartimento per la musica sperimentale della Apple. La carriera del non appariscente ed etereo George Harrison fu una delle più straordinarie che si conoscano. A soli ventisette anni, quando i Beatles si sciolsero, lui era già entrato nella dimensione del mito e nonostante il carattere forte dei due litigiosi leader Lennon e McCartney aveva trovato lo spiraglio per farci ascoltare proprie composizioni come Something e Here Comes The Sun, tanto per dirne due fra le più belle dell’intero catalogo Beatles.
Ora le sue ceneri fluttuano nel Gange, come da sua volontà.