Il N° 5 no, è troppo dolce. Ci vuole un’essenza fresca, che sa di buono com’era lui. Questa è la cronaca immaginaria di un’intervista mai realizzata alla persona con cui avrei desiderato farla più di tutte. Per la quale avrei atteso, e poi reclamato. Non è il personaggio da inseguire, è l’uomo che è esistito e in virtù di questo essere presente nella sua maniera unica e speciale si è mangiato una fetta del mio cuore.
La prima volta che ho visto Alan Rickman era nei panni distintivi del colonnello Brandon in Ragione e sentimento di Ang Lee, tratto da Jane Austen. Ogni sillaba della sua bocca una carezza, ogni gesto una profferta d’amore per la distratta Kate Winslet, presa da altre pene d’amore. È stato nell’istante in cui lo sguardo si posava su Brandon che ho capito che, senza rendermene conto, lui era già entrato nel mio subcosciente come Hans Gruber, il capo dei terroristi in Die Hard. La verità si fa strada da qualche parte fra la classe innata che mostrava in scena, l’accento di Hammersmith, quartiere di Londra dov’è cresciuto, la palestra del teatro, le mani morbide, la curva sinuosa delle labbra e quell’abito, che aveva chiesto di poter indossare al posto di una normale tuta, per dare più personalità al personaggio.
È la natura del Villain – odiava essere chiamato così – che si infila sottopelle. Fu il suo primo ruolo cinematografico. Il cattivo in uno scintillante film d’azione hollywoodiano. Allora veniva via a poco prezzo e fu così che regista e produttore si trovarono un attore con la A maiuscola, in grado di oscurare la star. I due lo avevano visto recitare a Broadway, nei panni del visconte di Valmont. Nessun dubbio: togli i costumi settecenteschi, mettigli un grigio perla ed è Hans. Lo scritturano.
41 anni. Un’età in cui nella vita si mette giudizio. Per Alan è l’esordio su grande schermo, dopo una gavetta fatta di classici e pièce sperimentali sui palcoscenici inglesi.
I quaranta sono lo Zenith nell’età di Alan Rickman. Un fiore cresciuto sul cemento, coltivato dal teatro, che non ne ha intaccato la genuinità, ne ha solo elevato la purezza. Lui che veniva dalla working class e suscitava pensieri di regalità nei colleghi, anche in quelli più giovani e affermati.
“Lord Rickman of the Alan” lo chiama(va) Benedict Cumberbatch, e dietro il tono da burla, per quella voce così profonda e virile che altri ci avrebbero fatto venti firme, intravediamo grande affetto e ammirazione. “Uh la Voce, quella voce” sospirano Kate Winslet e Helen Mirren, autrice di uno dei più palpitanti addii a questo talento immenso, fantasma innamorato e gentiluomo.
L’ansia da palcoscenico la conosceva bene e ne ha fatto un outing stupendo. Gli piaceva il fattore rischio. Mi fa ripensare a quando vado a teatro e mentre cerco un posto per il cappotto, di là dalle quinte c’è un attore con il cardiopalma che fa training autogeno. Entra in scena e… via. O va o si spacca. Adesso, se mai prima d’ora, le parole di Alan mi sembrano profetiche: “Il teatro è mortale”.
Vorrei spostare indietro le lancette del tempo a un ballo in maschera in cui incontro lo sceriffo di Nottingham. Mi farei leggere i sonetti di Shakespeare con la vibrazione di voce che preferisce. Farfalle nello stomaco, come se piovesse: ancora e sempre.
Coperitna: Alan Rickman