A nessuno più, ormai, verrebbe in mente di contestare il ruolo della fotografia all’interno delle arti visive. Analogica o digitale, essa è patrimonio culturale di musei e gallerie, è protagonista di mostre e fiere, di biennali e rassegne.
Ma ci fu un tempo in cui la fotografia non era considerata arte: il suo realizzarsi tramite un mezzo meccanico e una pellicola sensibile alla luce era considerato un procedimento artigianale, senza alcuna dignità superiore, solo un gioco rispetto alla più “degna” pittura. A ribaltare questa prospettiva, a rivoluzionare le concezioni radicate negli intellettuali e negli esperti dell’inizio del Novecento, intervenne l’opera di un gruppo di fotografi che con i loro scatti – in bianco e nero, naturalmente – permisero alla fotografia di riscattarsi e di intraprendere un percorso significante all’interno delle arti “maggiori”. Tra questi Alfred Stieglitz ed Edward Weston, oltre a Paul Strand.
Nato a New York nel 1890, quest’ultimo studiò alla Ethical Culture Fieldstone School con Lewis Hine, che gli trasmise il senso dell’attenzione verso gli aspetti sociali, e fin da giovanissimo si avvicinò alle attività della Galleria 291, dove già esponevano Stieglitz ed Edward Steichen; fu da questi contatti che decise di diventare fotografo e le sue prime esposizioni lo videro impegnato nell’elaborazione di scatti aderenti al genere del Pittorialismo che aveva come obiettivo l’avvicinarsi alla pittura, soprattutto nei ritratti. Successivamente abbandonò questo stile per seguire una direzione di fotografia più pura, caratterizzata da schemi astratti non indifferenti alle lezioni di Cézanne e Picasso, e da soggetti contemporanei quali la metropoli, il movimento e i ritratti di strada, producendo stampe al platino o al palladio che gli garantivano una gamma tonale molto estesa.
Paul Strand non fu un fotografo esclusivamente “statunitense”: all’inizio degli anni Cinquanta ebbe l’occasione di incontrare in Italia una delle voci più autentiche della Pianura Padana, una voce che ancora oggi sembra di sentire sulle rive del Po, quella di Cesare Zavattini. Accompagnato dal poeta e scrittore – che abbinò i testi alle immagini nel volume Un Paese (edito da Einaudi nel 1955) –, il fotografo condusse un’indagine nell’Italia poverissima ma ricca di speranza del Dopoguerra, documentando i volti e le storie delle persone, mettendo in risalto il legame con la terra e con l’acqua, e rendendo il piccolo paese di Luzzara celebre in tutto il mondo.
Paul Strand fu anche pioniere della fotografia di reportage: celebri, dopo le raccolte sulla Francia, Outer Hebrides dedicato alle Isole Ebridi, poi Living Egypt, le serie sulla Romania e quelle più recenti sull’Africa, in particolare con Ghana: An African Portrait.
Ma le ricerche di Strand, portate avanti fino alla sua morte, nel 1976, non furono solo di carattere sociale (rivelatrice la sua affermazione ‘It is one thing to photograph people. It is another to make others care about them by revealing the core of their humanness.’): si dedicò anche a immagini geometriche quasi astratte, con l’intenzione di proporre scatti nuovi, oltre che ai paesaggi, all’architettura e alle forme dei corpi femminili, in particolare della moglie Rebecca.