Hanno l’aria di archetipi queste figure immobili, lontane, intoccabili: sono le donne di Campigli, esseri femminili che esistono da sempre nell’arte occidentale, che ci sono familiari perché richiamano suggestioni e immagini che vanno dai ritratti del Fayum alle korai greche, dalle sculture funerarie etrusche – il pittore rimarrà folgorato dall’arte etrusca durante una visita alle collezioni di Villa Giulia a Roma nel 1928 – alle monumentali terrecotte di Arturo Martini, strepitose sculture degli anni Trenta del Novecento, guarda caso contemporanee alle tele di Campigli.
Infinite, elegantissime, ingioiellate eppure incasellate in alveari, inquadrate claustrofobicamente nei palchi dei teatri e nei vagoni del metrò, o ancora in bilico sulla soglia di una porta che non attraverseranno mai, le figure femminili sono protagoniste assolute di 80 dipinti esposti in una mostra alla Fondazione Magnani Rocca che indaga con attenzione e delicatezza l’opera di un pittore spesso dimenticato. A ricordarlo è intervenuta negli ultimi mesi l’edizione del Catalogo generale curato dagli Archives Campigli, che ha permesso di ripercorrere l’intrigante quanto commovente vicenda di un artista – apprezzatissimo anche da Margherita Sarfatti che lo accolse nel gruppo “Novecento” di cui faceva parte anche Mario Sironi, per fare un solo esempio – che ha partecipato al clima di fermento artistico della prima metà del secolo scorso. La poetica solidissima e, pur nell’uniformità dei soggetti scelti, mai scontata grazie a un approccio “antropologico” e sociale, si sposa con i toni terrosi e polverosi, con le ocre etrusche qui e là alleviate da azzurri luminosissimi.
Massimo Campigli, nome italianizzato perché di origine tedesca, nacque nel 1895 da una giovanissima madre che, per coprire lo scandalo di un figlio partorito fuori dal matrimonio, si trasferì con le donne della famiglia nella campagna fiorentina, dove il piccolo crebbe nella convinzione che la madre fosse sua zia. Scoprì l’inganno solo in età adolescenziale e non negò mai di non essere più riuscito a svincolarsi da una dimensione infantile – “Non mi sono mai rifugiato nel sogno, nell’infantilismo, ci sono semplicemente rimasto” – popolata da un universo di donne, di dee madri e di idoli femminei sempre più spersonalizzati e sempre più vicini a un primitivismo dal sapore spontaneo e tuttavia sereno. Dai volti replicati e dai corpi geometrici, quasi fossero clessidre, il rimando alle teorie psicanalitiche di Freud è non solo inevitabile, ma anche di prima mano, dal momento che Campigli lesse l’opera del grande scienziato in lingua originale. Uomo di cultura riservato, scrittore raffinato e cronista per il “Corriere della Sera” a Milano e a Parigi – città dove batteva il cuore del Ritorno all’ordine, di quel rinnovato dialogo con la classicità che percorre l’Europa del primo dopoguerra –, si rifugiò nel mistero delle sue origini e ne trovò linfa per un’ossessione verso la pittura che lo occupò per tutta la vita.
CAMPIGLI. Il Novecento antico
A cura di Stefano Roffi
Fondazione Magnani Rocca
via Fondazione Magnani Rocca 4, Mamiano di Traversetolo (Parma).
Dal 22 marzo al 29 giugno 2014.
Tel. 0521 848327 / 848148
Fax 0521 848337