Il lavoro fotografico di Anton Kusters è più unico che raro. Racconta una storia che ben poche persone al mondo hanno avuto e avranno la possibilità di vivere e testimoniarne con un sguardo così ravvicinato, i codici e le atmosfere. Il lavoro fotografico di Anton Kusters infatti racconta dall’interno e con occhio quasi intimo la vita di una delle più importanti “famiglie” della yakuza giapponese. Sono gli Shinsiekai, padroni incontrastati del quartiere a luci rosse di Kabukicho e delle sue strade con i suoi innumerevoli night-club e sale da gioco.
Quello della Yakuza è, come si può ben immaginare, un universo torbido e inaccessibile. Come tutte le organizzazioni criminali del mondo, “firma” centinaia di omicidi all’anno e un numero a tre zeri di intimidazioni ed estorsioni, controlla sale da gioco, night e bordelli; è quindi molto facile immaginare che per il fotografo belga non sia stato particolarmente semplice riuscire a entrare nel “giro”.
Come lui stesso racconta nel suo sito, ci sono voluti dieci mesi di estenuanti trattative: dai primi contatti nel 2008, fino al permesso concessogli nell’aprile del 2009. Per i due anni successivi e con diversi viaggi tra il Giappone e l’Europa, miscelando fotografia, video e parole, Anton Kusters e suo fratello Malik hanno pian piano dato forma al progetto 8-9-3_Yakuza – l’Organizzazione prende il nome dal punteggio più basso che si può ottenere nel popolare gioco di carte nipponico “Oicho-Kab”; 8 (hachi), 9 (Kyuu), 3 (San) – Ha-Kyuu-Sa… – riuscendo nel tempo a entrare nelle pieghe sempre più profonde della criminalità organizzata giapponese e a stilare un diario per immagini di un mondo apparentemente inaccessibile ma totalmente radicato nella società e cultura giapponese.
Osservando il lavoro del fotografo belga è immediato il rimando all’immaginario cinematografico di Takeshi Kitano, anche se con il regista giapponese le differenze sono sostanziali. Kitano è solito mettere in mostra il lato violento delle yakuza; quello fisico e verbale. Kusters invece mette in scena una violenza più silenziosa, subdola, strisciante, ma anche elegante e affilata come una katana.
Immagine dopo immagine, tra atmosfere plumbee e luci gelide che rapiscono l’attenzione, segue e rispetta i personaggi, senza mai invadere i loro spazi, diventando uno spettatore muto, un testimone invisibile e trasparente. Non interferisce mai, non interagisce; il tempo scorre lento e lenta è anche la discesa verso il fondo, sempre rispettando quella sottile linea fra il controllo totale della yakuza sul lavoro del fotografo e la propria integrità artistica, marcando sempre una propria visione.
Che sia questa la nuova via della narrazione fotografica? Superare i confini del fotogiornalismo e le aspettative della fotografia “artistica”?