Di fotografi che lavorano su un luogo abbandonato ce ne sono tanti e spesso le loro immagini sono suggestive, emozionanti, coinvolgono chi le guarda attraverso i dettagli dei muri scrostati, dei pochi arredi corrosi dai tarli o arrugginiti, di tracce umane che ancora resistono nonostante l’uomo non abiti più lì da anni, da decenni. Anche Silvia Camporesi (Forlì, 1973) ha subito il fascino delle rovine contemporanee, delle “ghost town”, ma quel che è nuovo nella sua ricerca Atlas Italiae sono la vastità e la continuità del progetto: come dice il titolo stesso, l’intenzione è quella di costruire un vera e propria mappatura italiana dei luoghi abbandonati, di quello status temporaneo e instabile che conduce o alla completa dissoluzione delle forme e degli oggetti o alla loro ricostruzione e riqualificazione.
Ecco in sequenza la Suite Emilia Romagna, poi Planasia e ora South Suite (quest’ultima in mostra presso ARTcore Contemporary Gallery di Bari fino al 07 novembre 2014), tutte serie stampate in bianco e nero e successivamente colorate a mano con pastelli dall’artista stessa – la quale spesso opera con interventi fisici sulla fotografia attraverso tagli, pieghe, assemblaggi che si rifanno all’antica tecnica del kirigami –, che in questo modo cerca di rianimare quei luoghi, di farli rivivere pur con un leggero ma ben percepibile e perturbante scarto tra l’esistente e l’immaginato, scarto che forse è l’essenza stessa della poetica della Camporesi.
Nonostante la definisca “iperfotogenica” e pertanto “infotografabile”, Silvia Camporesi ha affrontato nel 2011 anche Venezia. Un intero mese – febbraio – vissuto tra le nebbie della laguna: “lungo fondamenta di cui si vedono i profili solo per pochi metri, poiché più oltre sprofondano nei canali in un diffuso chiarore indistinto tra acqua e aria che si dissolve in vuoto incipiente tanto attraente quanto insidioso”, come scrive Bruno Corà; La terza Venezia, sono fotografie che risultano da un lato in una fusione tra l’immagine della città reale e quella della ricostruzione in miniatura del parco di Rimini, e dall’altro in scatti del mondo reale associati a una forte componente di finzione.
Molto di recente la fotografa ha pubblicato il volume Journey to Armenia, anch’esso frutto di un’idea che si basa sulla lunga durata: un soggiorno di un mese, una mostra e infine un libro. Ripercorrendo le tappe del famoso viaggio dello scrittore russo Maendel’stam del 1930, la Camporesi ha attraversato un territorio decisamente differente rispetto ai paesaggi che di norma preferisce, costringendola quindi a un significativo lavoro di post-produzione sulle tonalità e sulle luci per riproporre un’Armenia surreale e immaginifica, densa di silenzi, ruvida di pietre e accarezzata da tessuti stesi al sole.