La grande mostra milanese dedicata a Giotto sta per chiudere, chi leggerà queste pagine avrà solo pochi giorni a disposizione per andarla a vedere. Ma vale la pena scriverne, e per chi non ha avuto la possibilità di godersela di persona, proporre qualche impressione e suggestione che la possa far immaginare.
Giotto è senza dubbio il più pop degli artisti medievali: tutti noi conosciamo la leggenda della “O” che tanto colpì il più anziano Cimabue, tutti noi abbiamo usato pastelli e pennarelli che ne richiamano il mito. Molti si sono soffermati davanti a crocefissi grandiosi di rara umanità, altri ancora si sono immersi in sistemi di immagini a fresco strabilianti quali la cappella degli Scrovegni di Padova o la basilica di San Francesco ad Assisi. Era circa il Trecento, e si stava costruendo la cultura di un’Italia che ancora non esisteva ma che tramite la lingua di Dante e gli artisti che si spostavano da una città all’altra cominciava a sentirsi un Paese, pur nei differenti sistemi di potere che governavano le singole zone.
La mostra su Giotto è una meraviglia non tanto per le opere – sulla straordinarietà delle tavole, degli affreschi e dei progetti di Giotto nessuno dubita, fin dai suoi contemporanei che gli accordavano una posizione indiscutibile e preminente – ma per l’aver riunito in poche sale di Palazzo Reale a Milano ben 14 dipinti che mai, fino a ora, avevano condiviso gli spazi: un tragitto dalle prime opere dell’artista fino alle ultime tavole, quando ormai Giotto recitava il ruolo di autentico VIP che vantava richieste pressanti da sovrani e cardinali, banchieri e re. Frammenti e pale complete dimostrano la crescita e le innovazioni che progressivamente entrano in una pittura estremamente simbolica – come lo era tutta l’arte medievale – e che svelano un’attenzione sempre più mirata verso la rappresentazione della natura e soprattutto verso un’umanizzazione dei sentimenti che ha contribuito con forza al superamento della gelida ieraticità delle pitture più antiche. Impossibile descrivere nel dettaglio le pale d’altare, i frammenti di affreschi che tramite un espediente quasi scenico sembrano ricollocati nella loro chiesetta d’origine, la cimasa che in tempi antichi è stata asportata dall’opera originale e ora è accostata, vicina, alla pala originale ed entrambe si possono leggere assieme e riunire idealmente. Impossibile sottolineare i gesti dolcissimi di Madonne che sono prima di tutto madri, di angeli sensibili che proteggono con dei vetri scuri gli occhi dall’accecante splendore divino, di volti santi che sprigionano emozioni fino ad allora inconcepibili.
A fare da cornice alle tavole fondo oro, dai colori sgargianti e dalle costruzioni complesse e sontuose, sta un allestimento firmato da Mario Bellini: ferro e “grigio penombra” sono gli unici elementi, fatta salva la luce, che delineano altari profani dai volumi potenti su cui svettano le pale, mettendo al contempo in ombra la prestigiosa presenza di Palazzo Reale – quel palazzo visconteo dove Giotto fu presente al termine della sua vita – per raggiungere, come dichiara l’architetto, “il ‘grado zero’ dell’allestimento e un obiettivo: lasciare spazio, anche in senso figurato, soltanto a Giotto”.
Giotto, l’Italia
A cura di Serena Romano e Pietro Petraroia
Fino al 10 gennaio 2016