di Giovanni Ballarini
Una critica gastronomica di élite, già di per sé monca, almeno in parte è sbagliata. La critica gastronomica non dovrebbe neppure divenire un “mestiere”, e tantomeno una “condanna”, sia per chi la fa e sia per chi la subisce, la condanna di un mestiere che obbliga ogni settimana, cinquantadue settimane l’anno, a scrivere un articolo sempre con lo stesso numero di battute e con un taglio intellettuale consono all’indirizzo culturale (anche politico) del giornale o della rivista, o del prevalente tipo dei lettori. Al ristorante o in altri degli innumerevoli nuovi “posti in cui si mangia” il critico non va più (solo) per piacere, ma (quasi) per dovere professionale, con scelte a volte imposte dall’esterno e che nulla hanno a che fare con la gastronomia e il buon vivere. Nasce così la specie di critico-professionista gastronomico che può decadere nel critico-mestierante, rischiando a volte di trasformarsi in un critico-imbonitore.
Sulla linea ora indicata, è facile, ma non necessario, che il critico-professionista possa perdere il piacere, anche culturale, del divertimento giocoso della tavola. Il rischio di cadere nella rete del mestiere aumenta quando nella critica gastronomica si fa crescere oltre il dovuto, e diviene preponderante, una delle tante caratteristiche tecniche-culturali quali la scienza, la sociologia, la storia, l’antropologia, talune ideologie come l’ecologismo e l’animalismo e via dicendo. Le pur giuste e talvolta necessarie analisi di questo tipo non dovrebbero mettere in ombra quello che maggiormente (o esclusivamente) ricerca il lettore-consumatore, e cioè il piacere del cibo e della tavola, in considerazione e dipendenza delle sue radici e abitudini e, non da ultimo, riguardo ai prezzi.
Un critico gastronomico sarà tanto più critico-vero quanto più sarà capace d’essere e restare un consumatore colto e cosciente, capace di ben comunicare e quindi, soprattutto, di scrivere in modo da poter trasmettere in modo comprensibile e accettabile dal suo pubblico il proprio pensiero. La scrittura critica non è certamente una scienza, neppure una relazione scientifica o il resoconto di un processo o di un fatto di cronaca, e neppure un “pezzo di colore” (gastronomico o culinario) di cui i giornali e le riviste di grande tiratura sembra che oggi non possano fare a meno. La scrittura critica gastronomica è un genere letterario specifico e con una sua dignità, come ad esempio è un genere letterario la scrittura sportiva, anzi forse di ogni tipo di sport. La scrittura critica gastronomica deve poi tenere conto d’importanti caratteristiche del lettore- consumatore. Tante sono le sensibilità e le memorie culinarie e gastronomiche quanti sono i lettori-ricettori del messaggio e i giudizi del critico, anche se da lui ritenuti più raffinati e o profondi, sono soltanto singoli e “personali”.
Il critico gastronomico non dimentichi poi mai, ma proprio mai, che quando comunica la “sua” verità gastronomica, questa è soltanto relativa, e sarà sottoposta non a una critica, ma a tante critiche quanto sono i suoi lettori accorti, che lui spera numerosi.
Alla fine, sono sempre i lettori delle critiche che divengono gli implacabili critici dei critici gastronomici.
Copertina di Cecicilia Mistrali