Quando Kubrik, in Full Metal Jacket, scelse per l’epico finale la Marcia di Mickey Mouse – canzonetta entrata nell’immaginario collettivo statunitense negli anni Cinquanta – lo fece per il valore profondamente simbolico del personaggio.
L’approdo del topo disneyano in Italia, negli anni Trenta del Novecento, non fu meno suggestivo grazie alla prorompente capacità che ebbe la cultura americana di affascinare la più fine intellighènzia nazionale. Nel 1947 Cesare Pavese avrebbe definito quella seconda scoperta dell’America come “primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci”. Proprio della scure censoria fascista Mickey Mouse era stato uno dei rari superstiti: una nota autografa del duce – vergata su un elenco di eroi letterari e dei fumetti destinati all’epurazione – ne segnò il destino e quando nel 1942 la morsa del Minculpop si strinse, rimpiazzandolo con l’autarchico Toffolino, il tentativo di scardinarne la popolarità ebbe vita breve. Nel ’45 la banda del topo tornò alla ribalta. Per restarci.
Ma ritorniamo a Pavese. Giovanissimo professore di lingua inglese nei licei, pioniere nell’importazione della letteratura anglo-americana, nel 1930 aveva tradotto Sinclair Lewis per Bemporad, ma soprattutto fu il direttore editoriale di Frassinelli – il geniale Franco Antonicelli – a intuirne il potenziale: la sua versione di Moby Dick, primo volume della collana Biblioteca Europea, uscì per la casa torinese nel 1932 e da allora lo scrittore piemontese entrò nel gruppo “antonicelliano” insieme a Leone Ginzburg e Ada Gobetti. Nel 1933 toccò a due volumi che con la collana condividevano una sobria legatura, pur vivacemente illustrata a colori: le Avventure di Topolino.
In formato strips, fedele all’originale che aveva esordito pochi mesi prima, le vicende di Topolino erano già apparse in italiano nel marzo del 1930 su “L’Illustrazione del popolo”, ma l’operazione di Antonicelli era diversa: da Disney aveva ottenuto i diritti per riprodurre alcuni fotogrammi dai primissimi cortometraggi, dove i dialoghi erano ridotti a favore di un sonoro – musicale e cantato – molto più cinematografico. La sfida era quindi l’adattamento per la stampa, con scrittura quasi ex novo di battute e sceneggiatura, impossibile senza una comprensione profonda non solo dello slang, ma anche delle multiformi suggestioni di una cultura ancora estranea ai più. A Pavese il compito di visionare le pellicole e redigere una prima minuta dove restituire i significati del cantato originale e plasmare narrazioni per immagini senza dialoghi, non senza invenzioni personali: a lui si riconosce la paternità delle onomatopee e di uno squisito piemontesismo come Ciau, informale nel suo essere puro dialetto, per rendere l’altrettanto famigliare Hi. Ad Antonicelli il lavoro di fino, la pulitura linguistico-formale, la resa fresca nella prosa, l’elegante scelta della rima.
Possibile che tanta cura e dedizione Antonicelli avesse dedicato a un lavoro della cui frivolezza vergognarsi al punto da siglarlo con lo pseudonimo Antony? Non piuttosto un ludico escamotage, da vero innovatore quale era, simile a quello adottato anni dopo da Sergio Leone in Per un pugno di dollari (1964), firmato sotto le spoglie – decisamente più anglofile – di Bob Roberston?
Copertina: Le Avventure di Topolino n. 1