di Laura Fornasari
È leggendaria la storia del gruppo che si riunì a Villa Diodati, in Svizzera, nella cupa atmosfera dell’anno senza estate del 1816. Lord Byron, Percy Shelley, Mary Shelley, Claire Clairmont e John W. Polidori: costretti in casa dal maltempo e ispirati dalla lettura di novelle gotiche, si sfidarono a scrivere il racconto più spaventoso. Il celebre Frankenstein – o il moderno Prometeo nasce da un incubo che resterà impresso con cruda nitidezza nella mente della giovane Mary: uno scienziato che infonde la scintilla della vita in un cadavere, il momento in cui il creatore vede il frutto dei suoi sforzi e ne prova orrore, per poi affrontare lo sguardo del mostro che ha cercato di abbandonare al suo destino. Mary resta così turbata da capire di avere trovato l’ispirazione che stava cercando.
Mary Shelley, nata Mary Wollstonecraft Godwin (Londra, 1797-1851) è stata scrittrice, saggista e biografa. Figlia di filosofi anarchici, crebbe in una casa frequentata da uomini di scienza e poeti: la sua educazione fu influenzata sia dalla presenza di tali personaggi, che da una personale brama di conoscenza. La sua fu un’esistenza avventurosa: innamorata del poeta Percy Bysshe Shelley, i due fuggirono insieme nel 1814, inaugurando anni di viaggi, scandali, ristrettezze economiche, gravidanze, amori e lutti, che coincisero con un periodo di fervente creatività.
Si può dire che non avremmo la fantascienza come la conosciamo ora senza l’opera di Mary Shelley che, appena diciannovenne, diede alla luce Frankenstein. Il suo era un mondo in equilibrio fra nuove scoperte e antiche superstizioni. Nel racconto, l’utopia della creazione non viene affidata al puro soprannaturale, ma prende ispirazione da teorie scientifiche come gli esperimenti galvanici sui cadaveri. È lei a inventare la figura dello “scienziato pazzo”, che non aveva nulla a che fare con lo stereotipo entrato nell’immaginario, ma era un “Prometeo moderno” intenzionato a portare la luce del progresso, che tuttavia finisce per alterare un ordine incontrovertibile e generare una creatura condannata all’infelicità.
Il mostro diventa protagonista: racconta del dolore dell’abbandono, e della bellezza e conoscenza come sollievi alla crudeltà dell’uomo. Ed è l’uomo a trasformare l’innocente in mostro, scatenando una sete di vendetta portata all’ossessione, speculare a quella del creatore che per la sua opera sacrifica i rapporti umani, la salute, e infine il senno.
Vita e morte sempre si intrecceranno nell’esistenza della scrittrice: la sua stessa nascita, al prezzo della vita della madre, Mary Woolstonecraft, la segnerà insieme a una lunga serie di figli perduti. Rimarrà vedova a ventiquattro anni, col naufragio del marito, e sarà la scrittura il mezzo di sostentamento suo e dell’unico figlio rimastole.
Eppure Frankenstein non rappresenta soltanto “l’oscura progenie” di Mary, per quanto i suoi toni lugubri finiranno per accompagnarla per tutta la vita. Quel libro è anche testimone di un periodo felice troppo breve, quando l’appartenenza a ciò che lei stessa definiva “una cerchia di eletti” era sufficiente per compensare le più dolorose esperienze.
“E adesso, ancora una volta, ordino alla mia mostruosa creatura di muoversi e prosperare: nutro per lei affetto, perché scaturita da giorni felici, quando la morte e il dolore non erano che parole incapaci di echeggiare realmente nel mio animo”.
Copertina: Richard Rothwell, Ritratto di Mary Shelley, 1840, Londra, National Portrait Gallery