“Una cosa divertente che non farò mai più” è il titolo di un libro di D. F. Wallace, ma è un’affermazione che potrei usare alla fine del mio percorso che adesso vi voglio raccontare. Anche se so benissimo che non terrò mai fede all’affermazione di cui sopra ma anzi, appena avrò occasione lo rifarò ancora, e ancora, e ancora… certe cose, una volta iniziate si fatica a smetterle.
Non ho mai avuto idea di come si facesse un libro, fino a quando un bel giorno ho messo in piedi un progetto fotografico e contestualmente ho deciso che da quel progetto ne sarebbe nato un libro… fosse cascato il mondo! Ingenuamente credevo bastasse, una volta inquadrato tema e soggetto, trovare velocemente il modo di fare le foto, metterle insieme, fare un pò di grafica, impaginare, stampare.
Sì, ma quanto mi costa? I soldi chi me li dà? Mi autofinanzio o cerco uno sponsor? n editore non ci provo neanche. Sono una partita persa con gol al primo secondo del primo tempo.Ok. Stop. Passo indietro.
“Era una mattina fredda e nebbiosa…” effettivamente lo era – di novembre del 2007.
Da quando “maneggio” macchine fotografiche sono sempre stato molto sensibile alla memoria storica e collettiva della comunità – nonostante la memoria collettiva sia in realtà costruita su tante piccole immagini soggettive; mi sono infatti reso conto che non si può sapere dove andare senza prima sapere da dove si è partiti, le strade percorse e gli errori fatti, da sé stessi e dagli altri che hanno influenzato la tua vita. In altre parole se non sai da dove vieni difficilmente potrai essere artefice del tuo destino.
Questi pensieri mi sono tornati alla mente quella mattina mentre leggevo su una rivista di architettura green un articolo sulle aree industriali dismesse, in gergo tecnico identificate come “brownfield”. A differenza dell’analisi che se ne faceva in quell’articolo, la mia idea verteva più sul concetto di comunità del lavoro e dell’importanza culturale, sociale ed economica che lo sviluppo di quelle industrie ha comportato per il territorio nel quale operavano.
Ecco, in quel momento è nato il progetto Brownfield; un progetto fotografico di “archeologia sociale” dove si racconta la storia della comunità di lavoro nata, vissuta e morta all’interno della più grande vetreria industriale d’Italia, la ex Bormioli Rocco di Parma e l’impronta indelebile che entrambe (comunità e fabbrica) hanno lasciato nel tessuto urbano, storico, sociale ed economico del territorio.
Ho letteralmente assillato tutte le persone che conoscevo e a tutte quelle che non conoscevo, ma che potevano essermi utili per arrivare a entrare in quell’area; alla fine, forse per sfinimento, sono riuscito a entrare. È il maggio del 2009. Mi ritrovo in un luogo che per dimensioni e condizioni mi lascia stordito; un’area abbandonata di 120.000 metri quadri, svuotata dei contenuti, dove restava solo l’energia del fuoco, della fatica, della “macchina” che domina sull’uomo. A ogni passo, dietro ogni angolo tutto mi raccontava una storia, con la stessa impazienza che può avere un nonno che vuole raccontare la propria vita al giovane nipote. Così mi sono “perso” per due mesi all’interno di ciò che restava di quella macchina “ipertrofica” per raccontare la storia che avevo in mente.
Dopo cinque anni dalla sua realizzazione, a ottobre 2012, Brownfield è diventato il libro/oggetto a tiratura limitata di 300 pezzi firmati e numerati che potete trovare nel catalogo Fermoeditore (www.fermoeditore.it).