Si definisce scultore Erjon Nazeraj, ma quel che mi mostra sono prima di tutto i disegni. Decine e decine di immagini su supporti diversi, di carte recuperate che nell’operazione artistica perdono la loro funzionalità originaria; talvolta il segno grafico si interseca con dei collage, altre volte prevale la stratificazione dei fogli e si verifica una strana tangenza tra disegno e scultura, tra assemblaggio e idea. Anche il retro delle scatole delle medicine acquista significato perché tracciarvi delle immagini diventa un modo per preservare le proprie cicatrici, per superare il dolore e il malessere senza dimenticarlo o rimuoverlo.
La mostra Inside/Rinascite è stata smontata da poche settimane, ma l’artista inizia da quella esperienza per raccontarmi del suo lavoro, che sostiene essere sempre autobiografico: espressione di una storia di migrazione e di spaesamento, di ricerca di un luogo che sia “casa”, di liberazione dall’accademismo e infine di una rinascita che transita dalla scultura in piombo Utero natura, attraversa gli organi vitali – il cuore su tutti, il cervello – fino ad arrivare all’Alveare, una costruzione geometrica di esagoni, potenzialmente ripetibile all’infinito come le tassellature di Escher, e che contiene in ogni forma un neonato, un bambino che emerge da un fluido vitale e lattiginoso.
Ma il viaggio per arrivare al risultato di un’esposizione completa è stato lungo, complesso e ricco di senso. Come tutti i viaggi parte dalle carte geografiche, dalle rappresentazioni che permettono a chi si muove di dare uno sguardo d’insieme alla terra che attraversa, di orientarsi in un mondo nuovo; su di esse Erjon disegna, le taglia, le cuce e ne fa emergere le tracce prendendone contemporaneamente possesso mediante il suo intervento. E poi la valigia e le scarpe, la prima contenitore di memoria dipinta su una borsina di carta, anch’essa contenitore, le seconde strumenti essenziali per spostarsi da un luogo all’altro; mentre le barchette, sempre di carta, sublimano la realtà talvolta tragica di imbarcazioni scellerate che trasportano migranti.
Le sculture ruotano attorno alle stesse tematiche, si collocano nell’ambiente e in alcuni casi mutano di senso proprio nel loro rapportarsi allo spazio: una delle prime, l’Orso in travertino realizzato poco dopo aver finito l’Accademia a Bologna, è stato concepito in piedi, ma ora Nazeraj lo ha rovesciato e appoggiato sulla cassa che lo contiene: uno stravolgimento di prospettiva che è proprio del contemporaneo e che induce alla riflessione, in questo caso sulla natura torturata e “ribaltata” dall’uomo.
Ritornano i cuori, i piedi, la materia cerebrale: si coprono di aculei, si trasformano in ortaggi, si incamminano su nuove strade: questa volta più lisce, come le tavole di un parquet.