“Quando hai iniziato a dedicarti all’arte?”
“… da sempre, ho sempre disegnato”.
Chissà quante matite ha consumato Artan (Shalsi) da quando, per la prima volta, ha trovato un foglio su cui fare i primi segni, su cui imprimere la propria visione del mondo. Dopo un primo approccio “spontaneo”, la formazione dell’artista è stata rigidamente accademica, con studi presso la Scuola d’Arte a Berat, in Albania, dove gli insegnamenti erano ancora quelli modulati sul realismo socialista, quindi estranei all’astrattismo tanto quanto alle più recenti tendenze artistiche degli ultimi decenni del Novecento. Il Paese di origine di Artan è però da sempre terra di scambi e incroci, di passaggi e compenetrazioni: la cultura nasce da quella greca; archeologia e rovine sono parte del paesaggio e patrimonio dei musei, ed è proprio da quelle radici che Artan ha cominciato a elaborare le sue lastre d’acciaio, sulle quali da allora stende profonde pieghe che diventano rielaborazione contemporanea dei panneggi delle antiche statue e regolarizzazione matematica delle stoffe e dei veli in una superficie mossa che avvolge lo sguardo.
Dopo un lungo soggiorno in Germania e il trasferimento in Italia, Artan aderisce in modo coerente e personalissimo a uno stile minimalista non esente da stretti legami con l’ambiente naturale o artificiale che deve accogliere l’opera d’arte, creando simbiosi con il paesaggio e con gli spazi in una ricerca che non tralascia mai di indagare i concetti di limite e di infinito.
Nel ruolo di scultore, sceglie i materiali che più rappresentano la sua poetica, ne esalta il senso tattile ed epidermico, riuscendo ad ammorbidire l’acciaio e la plastica, rivelando il cuore lucido e specchiato che si svela all’interno del guscio ruvido e arrugginito del cor-ten, rivestendo i solidi di vernici gommate che stupiscono per consistenza e variabilità della superficie. Le fonti da cui derivano i progetti sono invece quelle quotidiane: dal fascino per l’estetica dei macchinari dell’officina dove produce le sue opere, a visioni causali che percepisce tutti i giorni e che Artan metabolizza per poi sublimarle in concentrati geometrici, in linee – modellate o disegnate – cariche di significato. Come nel caso della serie “equilibri obbligati”, forme pure che attraverso l’uso di materiali dal diverso peso specifico, alterano il loro equilibrio e spiazzano l’osservatore, a cui rimane un senso di disorientamento.
Artan non è solo un artista: il dialogo che si instaura parlandoci assieme mentre mi offre un tè albanese (“il più buono del mondo”) è profondo e tocca con consapevolezza le motivazioni del suo fare arte, le esigenze di un’espressione creativa che non vuole mai essere comunicazione e infine il bisogno di una progettualità che parte dalle cose semplici, attraversa una meditazione complessa e si realizza in sculture essenziali.