Adozione. Un vero atto d’amore verso persone, animali, (ideologicamente) cause e, con le dovute proporzioni, verso la nostra lingua. Se non avete mai pensato che fosse possibile prendersi cura di una parola, di qualcosa che usiamo quotidianamente e senza di cui saremmo persi, dovrete ricredervi. La società Dante Alighieri, che cura e studia la nostra lingua, infatti, ha promosso la campagna “Adotta una parola” che nata nel 2010, e rilanciata adesso (anche grazie a una nuova iniziativa della Dante di cui si parlerà nel prossimo numero di Fermomag, ndr) a oggi ha “salvato” più di 30mila vocaboli. Ma come si adotta e come si tiene in vita una parola? Ne abbiamo parlato proprio con il dott. Arcangeli.
Da dove nasce l’idea del progetto “Adotta una parola”?
L’idea era quella di rilanciare le parole poco usate della nostra lingua, vocaboli che magari i giovani nemmeno conoscono. Con i social network, la gente comune e i personaggi famosi, la rivista io Donna, partner del progetto, abbiamo salvato oltre trentamila parole. È un’idea nata in Spagna che noi abbiamo ripreso volentieri destinandola soprattutto ai giovani.
Come si adotta e si mantiene in vita una parola?
Ognuno è libero di scegliere, per le ragioni più diverse, il vocabolo che preferisce, se è libero, e ne diventa il custode unico; se vuole può motivarci la scelta della parola. Comincia così un percorso che dura un anno e prevede che questa persona “accompagni” e segua la parola durante questo periodo di tempo notando, e segnalandoci, se la vede scritta o la sente, se la studia o la divulga. Noi teniamo una sorta di bilancio dell’operato e a un paio di mesi dalla scadenza dell’anno, nel caso in cui non fosse stato fatto abbastanza, lo facciamo notare e sollecitiamo il custode a impegnarsi di più nel percorso di cura. Nel caso in cui l’impegno non fosse ancora sufficiente la parola gli viene sottratta e resa libera, così da poter essere nuovamente disponibile. Se, diversamente, il bilancio è positivo, la parola resterà al suo custode che troverà magari nuovi spunti e “alimenti” per tenerla in vita.
Può farci qualche esempio?
C’è chi la trascrive, altri la fotografano in giro per il mondo, c’è chi la usa comunemente nel proprio linguaggio contribuendo a divulgarla, o chi, come gli insegnanti, ci lavora sopra studiandola, insomma ognuno è libero di fare come crede, non ci sono limiti.