di Salvo Taranto
È il “romanzo futurista” per eccellenza, tanto da autodefinirsi così nel proprio sottotitolo. Il codice di Perelà è una strana creatura partorita a Milano da Aldo Palazzeschi nel 1911. Sono tempi di grande opposizione al romanzo tradizionale, una resistenza capeggiata soprattutto dalla rivista “La Voce” di Prezzolini e Papini. Il panorama letterario italiano è caratterizzato da un desiderio di dissoluzione della forme tradizionali e di frantumazione della scrittura. Un intento che, per quanto riguarda gli autori “vociani”, ha ragioni di carattere etico. I futuristi, invece, rincorrono attraverso l’arte la distruzione totale della tradizione e l’esaltazione della bellezza insita nella modernità.
La critica ha definito Il codice di Perelà, oltre che la migliore opera narrativa di Palazzeschi, un “antiromanzo dalla grande portata innovativa”, uno strappo definitivo dalla letteratura ottocentesca che a lungo non è stato apprezzato per entità e valore letterario. Il protagonista è una nuvola di fumo dalle fattezze umane che si è condensata nella cappa di un camino grazie al fuoco alimentato da tre anziane: Pena, Rete e Lama. Sono le sillabe iniziali di questi nomi a comporre il modo in cui l’uomo di fumo viene identificato. Perelà, dopo aver trascorso 33 anni in prigionia, riesce a calpestare per la prima volta la terra calzando degli stivali molto pesanti. La sua comparsa non lascia indifferenti i sudditi del regno in declino di Torlindao, un “re che non si vede” e che, presto, convoca Perelà a corte per affidargli l’elaborazione del nuovo codice. Per procederne alla scrittura, il protagonista entra in contatto con varie figure, tra le quali il filosofo, il banchiere, nobildonne e artisti, e da questi incontri scaturisce una rappresentazione ridicola della società borghese, un carnevale di vite umane. Invidioso della fama di Perelà, Alloro, un servitore del re, si suicida dandosi fuoco nel tentativo di diventare anch’egli un uomo di fumo.
La tragedia, pur senza responsabilità per l’accaduto da parte di Perelà, ne comporta l’accusa e la condanna, dapprima a morte e poi all’ergastolo. Il protagonista, però, riesce ad evadere dal carcere facendo a meno degli stivali e risalendo così verso il cielo. L’uomo non tollerato per una leggerezza che lo rende libero, trova pertanto la salvezza nella propria diversità e lontano da una società incapace di accettare ciò che si discosta dai canoni tradizionali.
Il codice di Perelà è senza dubbio un’opera di difficile collocazione, fascinosa e a tratti impenetrabile, che fa il paio con l’intera esperienza umana di un autore che è tra i protagonisti della cultura italiana del Novecento, un futurista distante dal nazionalismo e dal fascismo. “Sono forse un poeta?”, si chiede ad esempio Palazzeschi in una breve lirica che si intitola “Chi sono?”. No, ammette. Così come non è un pittore o un musico, perché “non ha che un colore/la tavolozza dell’anima mia” e “non c’è che una nota/ nella tastiera dell’anima mia”). “Chi sono?”, si domanda allora in conclusione Palazzeschi. Questa la sua risposta autoironica e priva di commiserazione verso se stesso: “Il saltimbanco dall’anima mia”.