Un dipinto di Enrico Robusti – parlo dei più recenti – non è rilassante, né rasserenante.
Stupidità, volgarità, grettezza, ipocrisia: l’umanità di buoni sentimenti abita altrove. Ogni tanto qualche gentilezza affiora. Figure distorte e prospettive da capogiro, le grandi tele brillano di acrilica aggressività; l’interpretazione soggettiva cade davanti al senso imperativo dei titoli, ironici se non caustici.
Eppure la carriera di Enrico Robusti, nato a Parma, inizia su ben altri binari. Dopo gli studi classici e una laurea in Giurisprudenza si è dedicato allo studio della tecnica pittorica, con particolare riferimento alla scuola seicentesca di van Dick e Rubens. Nel 1986 ha esordito con la mostra De rerum natura alla Consigli Arte di Parma. Nel 1991 nella stessa galleria è presentato da Federico Zeri nell’ambito di una mostra di ritratti. Da quel momento l’attività di ritrattista diventa la sua professione.
Poi qualcosa cambia.
La svolta nella sua vena espressiva porta la data del 2004, anno della mostra Bar Italia, alla galleria Annovi di Modena, presentata in catalogo da Gene Gnocchi. Sempre nello stesso anno si presenta a Torino, alla galleria Pinxit, con la mostra E.R. Nel 2005 è tra gli artisti contemporanei della mostra Il Male. Esercizi di pittura crudele, alla Palazzina Reale di Caccia a Stupinigi (TO), a cura di Vittorio Sgarbi; in luglio il Comune di Roma sceglie la tela intitolata “Se penso che domani dovremo pagare l’affitto avverto un senso di vertigine” come manifesto per le celebrazioni del 40° anniversario dello sbarco sulla luna.
Seguono infinite mostre, personali e collettive, in Italia e all’estero. Nel giugno del 2011 è scelto fra i partecipanti della 54° biennale di Venezia e inaugura due personali: alla Pow Gallery di Torino e all’Albemarle Gallery di Londra.
Come ha dichiarato tempo fa, Enrico Robusti ama il tema della quotidianità. «Ci inciampo contro perché nelle cose della vita l’uomo si trova sempre in una situazione inadeguata, anche là dove, come nel quotidiano, dovremmo sentirci sicuri». I suoi personaggi non sono caricature ma, secondo il critico d’arte Alberto Agazzani, «verità più vere del vero».
Tre le domande.
Cosa ti ha portato a cambiare completamente stile, quale interruttore è scattato?
«Era latente dentro di me da tempo. Mi si presentavano flash e intuizioni che avevano bisogno di maturazione, poi a un certo punto della tua vita scatta qualcosa e senti che “puoi”. Sarà la visione che hai della vita o quel vago senso di disincanto che credo ci accomuni un po’ tutti. Sarà la voglia di tirare qualche somma… insomma, senti che “puoi”. Allora gli estremi, a volte, ti accorgi che coincidono; a volte, invece, occorre tirare fuori quello che hai accumulato e sedimentato e allora, accade che la tela si carichi di pensieri “pesanti” e ti viene di dipingere “l’uomo” nella sua drammatica inadeguatezza di fronte alla vita e alla morte con i contorni… giusto quelli, della barzelletta».
A Parma hai allestito una personale soltanto nel 2011. Come mai?
«Stranamente mi è riuscito più facile iniziare il mio percorso da fuori… Nella mia città sono tornato come Ulisse dopo varie peregrinazioni. Non siamo in presenza di un “nostos”, ma piuttosto dell’esigenza di fermarmi in un luogo famigliare dove raccogliere le forze per poi ripartire».
Dove sono esposti i tuoi quadri in questo momento?
«Ho due tele esposte alla biennale di Torino fino al 30 gennaio. È da considerarsi l’ultimo colpo di coda della Biennale di Venezia a cui ho aderito con un grande quadro esposto all’ Arsenale».