“Si alza il vento, bisogna tentare di vivere”. Incorniciato da questi emblematici versi, presi in prestito dal Cimitero Marino di Paul Valèry, l’ultimo film di Hayao Miyazaki non è solo l’ultima delle sue opere in termini cronologici, ma il suo testamento artistico, preludio a un ritiro dalle scene che lascerà un vuoto non solo nel panorama internazionale dell’animazione ma nel mondo dell’arte intera. Ispirato alla storia di Jiro Horikoshi, l’ingegnere aeronautico che inseguì il supremo ideale di bellezza nel volo, nell’audace armonia di tecnologia e forme che diede origine al caccia Mitzubishi A5M, quest’opera è un affresco profondo e delicato, ricco di citazioni e profondi riferimenti simbolici, sullo sfondo di un Giappone diviso fra sogno, visione e tragica realtà storica, trasfigurato in un toccante romanzo di formazione.
Una sinfonia di colori, suoni, immagini e sentimenti segue passo passo la crescita del giovane Jiro e quella di uno stato ancora sospeso fra tradizione e imperativi di un progresso sempre più piegato alle leggi economiche, alla necessità di trasformare il sogno di un bambino in uno strumento di superiorità bellica e distruzione. Un inno disperato alla vita, alle sue trame imprevedibili e controverse, che con un soffio di vento possono decidere di sostenere il tuo volo e un istante più tardi precipitarti al suolo. Ed è proprio il vento il regista occulto delle vicende trasmesse: personaggio invisibile eppur sempre presente, che accarezza l’erba nei panorami onirici di Jiro, ne testimonia i successi lavorativi e accompagna da lui l’amata Nahoko contornandola di fiori di pesco la notte del loro matrimonio.
Il vento che si fa messaggero di morte, della fine di una vita così come di migliaia, mentre nel turbine di stupendi avvicendamenti cromatici il bianco trionfa nella sua natura duplice e ambivalente, fra il suo essere simbolo di purezza e candore, tipico della cultura occidentale, e la valenza ben più tetra e luttuosa attribuitagli dalle culture asiatiche. Sui volti emaciati di un malato, sulle nevi che circondano il sanatorio in cui questi cerca pace, sulle carlinghe accartocciate dei caccia abbattuti ma anche sull’ombrellone che danza nel vento, riavvicinando in età adulta Nahoko e Jiro, il bianco assume di volta in volte mille sfumature di significato, rimarcando così la profondità di Miyazaki, vicino in questa sua indagine cromatica al genio di Kubrick
più di quanto possiamo immaginare (specie se si pensa al ruolo avuto proprio dal colore bianco in film come Arancia Meccanica e Barry Lyndon).
Un film dotato di una profondità rara, che nel personaggio di Hans Castorp, “esule” tedesco in aperto conflitto sia con il regime nazista sia con le politiche militari giapponesi, rimanda all’omonimo protagonista de La Montagna Incantata di Thomas Mann, costruendo ancora una volta un ponte fra occidente e oriente, e riflettendo (forse) sul significato della montagna come archetipo universale del sacro. Una storia appassionante e commovente, come del resto lo è la vita, che Jiro spesso affronta in abiti chiari, candidi come la neve.